Alda Merini, gli anni bui del manicomio

Alda Merini venne più volte internata in un ospedale psichiatrico nel corso della sua vita.
I suoi tristi ricordi sono racchiusi in un libro dal titolo “L’altra verità. Diario di una diversa”.
“Si va in manicomio per imparare a morire”. Questa la terribile frase pronunciata da Alda Merini, sublime poetessa italiana scomparsa nel 2009 all’età di 78 anni.
Mente brillante dalla rara sensibilità, Alda Merini è forse la penna letteraria più rigogliosa del ‘900. E’ divenuta, per la profonda riflessività della sua opera ma anche, suo malgrado, per la durezza di alcuni episodi della sua vita, il simbolo del malessere degli individui.
Ma cosa esattamente la affliggeva?
Il male oscuro
I primi segni di intorpidimento della mente, da lei stessa definiti “ombre”, comparvero quando Alda era ancora molto giovane, ma già madre di due figli.
Erano momenti di stanchezza, riflessione e tristezza, scambiati tuttavia dal marito per pazzia. Il male oscuro che affliggeva la sua mente geniale altri non era che un disturbo bipolare; un alternarsi di umori contrastanti, una forma di depressione che in realtà rappresentava, per Alda Merini come per tanti altri geni della storia, la sua marcia in più. Il segreto di quella sensibilità così particolare, di quella capacità di immedesimarsi nell’animo altrui e comprenderne le pieghe più nascoste.
L’internamento nella clinica dei pazzi
In seguito ad una delle sue crisi, forse la peggiore, in una fredda giornata del 1961 il marito chiamò un’ambulanza, “non prevedendo certo” che sarebbe stata portata in manicomio.
Da allora, Alda viene ricoverata più volte, uscendone definitivamente solamente 10 anni dopo. I racconti e le memorie di quei luoghi, delle cure ricevute, sono raccapriccianti. Quando si rese conto, quel primo giorno, di dove era stata portata, Alda racconta così: “dai miei visceri partì un urlo lancinante, una invocazione spasmodica diretta ai miei figli e mi misi a urlare e a calciare con tutta la forza che avevo dentro, con il risultato che fui legata e martellata di iniezioni calmanti”
Lei non si riteneva pazza e ne era consapevole: si ribellava dunque ai medici e alle cure a cui la sottoponevano.
Il manicomio era un luogo terribile: pazienti ridotti allo stato brado, urla e pianti continui, autolesionismo erano all’ordine del giorno.
La cosa peggiore di tutte era la paura che, a furia di subire quelle che, a tutti gli effetti, erano vere e proprie torture ammantate come cure mediche, lei potesse diventare come gli altri.
La stanza dell’elettroshock.
La pagina più angosciante tra i ricordi di Alda è il momento dell’elettroshock. Alda ricordava la stanza dove questa particolare pratica veniva somministrata come un luogo terribile, dove ti saliva addosso la paura già nell’anticamera. Un luogo piccolo e sporco, dove la gente aspettava il proprio turno ascoltando inermi le pene patite nella stanza vicino.
“Una volta arrivai a prendere la caposala per la gola, a nome di tutte le mie compagne” racconta Alda. “Il risultato fu che fui sottoposta all’elettroshock per prima, e senza anestesia preliminare, di modo che sentii ogni cosa. E ancora ne conservo l’atroce ricordo”.
Il manicomio prima delle legge Basaglia.
E dunque cos’erano i manicomi prima della doverosa riforma sanitaria? Luoghi di cura o stanze di tortura legalizzate? I racconti che la grande poetessa fa di quegli anni lasciano l’amaro in bocca. La sua esperienza, così crudamente testimoniata attraverso i suoi diari e le successive, numerose, interviste rilasciate in tv, grida in faccia la realtà: i manicomi non (erano) altro che luoghi per “scaricare gli istinti sadici dell’uomo”.
Ma la grandezza di questa donna sta anche nell’essere riuscita ad andare oltre.
Oltre al male subito, all’orrore vissuto sulla pelle, con la straordinaria capacità di trasformarli in poesia.
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