TATUAGGI INDIANI: lo stop dai ricercatori dell'Università di Perugia

I tatuaggi indiani, a base di henné colorato, sono molto diffusi specialmente tra bambini e adolescenti, ma meglio non farli. Perchè?
Semplici da realizzare, del tutto indolori e soprattutto temporanei, spopolano d’estate donando dei piacevoli ornamenti floreali da sfoggiare sulla pelle ambrata.
L’esecuzione di questi tatuaggi indiani è davvero semplice ed ha radici molto antiche nella tradizione dei Paesi orientali.
L’hennè è una tintura naturale ricavata dall’essiccazione delle foglie di un arbusto noto, appunto, come henna, una pianta dai pigmenti rossastri molto utilizzata in fitocosmesi, che costituisce l’ingrediente base per preparare un impasto da spalmare poi sulla pelle con apposite cannucce molto sottili che, rilasciando il prodotto poco alla volta, permettono la realizzazione del disegno desiderato.
Ma attenzione: se sino ad ora i tatuaggi indiani erano ritenuti del tutto innocui, tanto da essere eseguiti anche sui bimbi, è di pochi giorni fa la pubblicazione sulla prestigiosa rivista scientifica “Internacional Journal of Environmental Research and Public Health” di uno studio realizzato dai ricercatori dell’Università di Perugia, coordinati dalla Prof.ssa Susanna Esposito, presidente dell’Associazione Mondiale delle Malattie Infettive e Disordini Immunologici.
Da quanto emerge in base alle ricerche condotte dagli studiosi, infatti, questo tipo di tatuaggi causerebbe forti dermatiti a causa di alcune sostanze utilizzate nella preparazione.
Ma vediamo nel dettaglio di quali rischi si tratta.
TATUAGGI INDIANI: NATURALI O NO?
Il colore base dell’hennè, come abbiamo detto, è il rosso rame; ma per realizzare i tatuaggi a questo ingrediente naturale viene aggiunta una sostanza chiamata para-fenilendiammina (PPD), che serve ad ottenere un colore più scuro e soprattutto più duraturo.
E’ tale sostanza ad essere nel mirino dei ricercatori: può infatti determinare, in soggetti con pelli delicate o chiare (tra cui naturalmente i più piccoli), una sensibilizzazione cutanea che si manifesta con dermatiti irritative, tra cui la forma più comune è la dermatite allergica da contatto.
Nelle persone allergiche al composto, inoltre, il rischio aumenta perché si possono manifestare reazioni violente con gonfiore e rossore o, nei casi più gravi, addirittura shock anafilattico!
Ma non è finita qui.
Lo studio condotto su un campione di volontari ha evidenziato che ben il 50% dei soggetti analizzati (tra coloro i quali hanno manifestato reazioni) ha sviluppato bolle, vescicole, eritemi e addirittura comparsa di febbre entro uno o due giorni dalla prima applicazione.
Il rimanente 50%, invece, ha manifestato questi sintomi solo dopo il ritocco, e quindi sino a 72 ore dall’effettuazione del tatuaggio.
COSA FARE SE SI MANIFESTANO LE REAZIONI AVVERSE
La terapia indicata è a base di cortisonici ed antistaminici, che vanno somministrati anche per lunghi periodi: si va dai 7 giorni sino addirittura alle quattro settimane per apprezzare la scomparsa della sintomatologia.
Purtroppo possono verificarsi, quale ulteriore conseguenza, delle discromie cutanee che possono perdurare sino ad un anno dal contatto con la sostanza allergizzante; l’uso della PPD in cosmetologia è infatti vietato dall’attuale normativa europea, che lo ammette in basse percentuali solo nelle tinture per capelli.
Attenzione dunque all’uso improprio di questi tatuaggi indiani, specialmente in bambini e adolescenti!
Una volta sensibilizzati alla PPD, i pazienti – avverte la prof.ssa Eposito – possono:
“sperimentare gravi sintomi clinici quando vengono riesposti a sostanze che contengono o reagiscono con PPD e possono presentare una ipopigmentazione persistente”.
E’ opportuno dunque non acquistare mai kit fai-da-te, molto diffusi specialmente on line, che contengono quantità non precisate di PPD e non affidarsi a tatuatori improvvisati.
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